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L'occupazione della Jugoslavia e le conseguenze per gli ebrei cittadini e profughi

Il 6 aprile 1941 i tedeschi entrarono in Jugoslavia. L'attacco tedesco iniziò con un massiccio bombardamento sulla capitale jugoslava Belgrado, che capitolò dopo 6 giorni, e sull'aviazione jugoslava che fu quasi completamente distrutta. L'Italia fascista partecipò alle fasi dell'invasione partendo dalle proprie basi in Venezia Giulia e Istria, da Zara, e dall'Albania.
L'avanzata dell'esercito tedesco procedette secondo i piani: il 10 aprile Zagabria era già stata occupata; il giorno successivo venne proclamata la costituzione dello Stato Indipendente di Croazia. Lubiana venne occupata dalle truppe italiane l'11 aprile e il giorno successivo anche Karlovac venne raggiunta dalle colonne italiane e tedesche.
Più a sud i tedeschi raggiunsero Skopje il 7 aprile e si ricongiunsero poi con le forze italiane provenienti dall'Albania.
Al momento della spartizione, la Germania impose l'annessione al Reich della parte settentrionale, e maggiore, della Slovenia, un regime di occupazione militare in Serbia, amministrata da un governo fantoccio ed una sua amministrazione diretta nel Banato, oltre al controllo assoluto delle risorse economiche - soprattutto minerarie - del paese.

L'Italia, da parte sua entrò in possesso di tre zone che furono annesse direttamente al territorio italiano. Queste erano:

Il nuovo Stato indipendente croato, l'Ndh, con capitale Zagabria, governato dal leader degli ustascia Ante Pavelic, era di gran lunga la formazione statale più estesa tra quelle scaturite dal dissolvimento della monarchia jugoslava, poiché comprendeva anche la Bosnia-Erzegovina e la parte occidentale della Vojvodina. Esso venne diviso in due aree di influenza, tedesca ad oriente ed italiana ad occidente, separate da una linea di demarcazione che lo divideva in senso longitudinale passando ad ovest di Zagabria e di Sarajevo.

Alla fine degli anni trenta vivevano in Jugoslavia circa 74.000 ebrei. Le comunità più numerose erano quella di Zagabria e quella di Sarajevo. Sul territorio si trovavano poi dai 4000 ai 5000 profughi giunti dalla Germania, dall'Austria, dalla Cecoslovacchia, dalla Polonia.
In questa situazione e tenendo anche conto delle leggi antiebraiche, gli occupanti italiani distinsero:

Già a fine aprile del 1941 ebbero inizio, nelle zone occupate dai tedeschi e nello Stato indipendente croato gli arresti e le deportazioni verso campi istituiti nel territorio, nei quali avvenivano terribili violenze. Nell'aprile del 1942 il governo di Zagabria concordò la deportazione di coloro che ancora sopravvivevano verso i campi di sterminio in Polonia.
La politica italiana, decisamente diversa, si fondava soprattutto sulla volontà di limitare l'ingerenza nazista nelle scelte e nei comportamenti delle autorità politiche e militari.
La fuga oltre il confine ungherese o, appunto, nei territori annessi all'Italia appariva così, ai perseguitati, come l'unica salvezza.
Secondo le autorità italiane, però, i profughi rappresentavano un grave problema sia economico sia di gestione dell'ordine pubblico. La loro prima reazione fu quella di chiudere le frontiere a tutti, senza distinzione alcuna e di ricacciare indietro coloro che riuscivano ad entrare.
Le misure restrittive furono particolarmente severe per gli ebrei ai quali, già dall'agosto del 1939 non veniva più concesso il visto consolare.
I commissari delle zone di nuova acquisizione della Provincia del Carnaro, facenti capo al prefetto di Fiume Temistocle Testa, l'Alto commissario per la provincia di Lubiana, Emilio Grazioli il governatore delle tre province dalmate Giuseppe Bastianini e il comando della II Armata che occupava i territori conquistati ricevettero la disposizione di vietare l'ingresso ai profughi.
Uguale disposizione andava applicata anche al confine della zona di occupazione italiana in Croazia, dal quale tentavano di passare gli ebrei residenti nella zona occupata dai tedeschi.
In pratica il respingimento alla frontiera fu applicato nei confronti di tutti gli ebrei che appartenevano a nazioni che perseguivano una politica di discriminazione razziale: se invece si fossero trovati in Italia sarebbero stati, come sappiamo, internati in campi o località.
Il respingimento e la consegna alle autorità croate avvennero nonostante numerosi ebrei dichiarassero di preferire la morte piuttosto che essere consegnati agli ustascia.
Eppure i tentativi di ingresso non si fermavano ed avvenivano con tutti i mezzi possibili, compresi quelli messi a disposizione, dietro pagamento, da contrabbandieri.
I documenti conservati presso l'Archivio centrale dello Stato di Roma, riguardanti il territorio della provincia del Carnaro e Fiume, raccontano questa storia tramite le comunicazioni con le quali le autorità locali informavano Roma di ciascun allontanamento o respingimento, corredandole con l'elenco delle persone che erano state assoggettate al provvedimento1.
Scorrendo questi elenchi è facile rilevare come profughi già respinti o allontanati ripetessero più volte il tentativo di ingresso. In più dal confronto con gli elenchi degli internati nei campi o nelle località - come è possibile verificare nel database - si può notare che alcuni di essi, pur non appartenendo ai vari gruppi che, successivamente vennero internati con decisione delle autorità, riuscirono ugualmente ad entrare nel territorio italiano.


1 ACS, PS, A16, Stranieri e ebrei stranieri, busta 10/Fiume, comunicazioni relative agli allontanamenti della prefettura di Fiume al Ministero degli interni (luglio/agosto 1941)

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