a cura di Anna Pizzuti
I “campi di concentramento” italiani per gli stranieri non avevano in comune con quelli tedeschi molto più che le denominazione. Per realizzare gli internamenti fu costruito all'inizio un unico campo di baracche a Ferramonti-Tarsia, a nord di Cosenza in Calabria. In tutti gli altri casi vennero usati edifici requisiti o affittati: monasteri, ospizi, caserme, sale cinematografiche ampliate e ville disabitate, che potessero contenere fino a 200 persone. Solo il campo di Ferramonti-Tarsia nei mesi immediatamente precedenti la liberazione giunse a contenere oltre 2000 internati, di cui circa 1500 ebrei. In tutto il periodo dell’internamento, fino al settembre 1943, si può provare l'esistenza di circa quaranta campi, nei quali venivano tenuti “ebrei stranieri”. Ad eccezione di due casi, tutti i campi erano situati nell'Italia centrale e meridionale, soprattutto nelle province molto fredde d'inverno - di Campobasso, Chieti, Macerata e Teramo.
I campi più meridionali si trovavano a Campagna in provincia di Salerno, ad Alberobello in provincia di Bari e a FerramontiTarsia in provincia di Cosenza. Solo in dodici campi gli ebrei erano separati dagli altri stranieri. In tutto c'erano sette campi femminili. I campi promiscui erano tre. A Ferramonti-Tarsia alla fine del 1940 furono edificate delle baracche per famiglie, che non bastarono tuttavia a riunire tutte le famiglie che l'internamento aveva separato. A partire dal 1941 a Ferramonti-Tarsia fu data la possibilità, su istanza degli internati, di passare al regime di “libero internamento". Molti speravano di trovarvi condizioni di vita migliori, specie se i luoghi in questione si trovavano nell'Italia settentrionale. Nelle domande si poteva indicare la provincia preferita per il soggiorno. Cosi molti profughi e immigrati ebrei che avrebbero potuto essere liberati dagli alleati, dopo l’8 settembre si trovarono nella zona d'occupazione tedesca e furono deportati.
Nel decreto del 4 settembre 1940 riguardante l'internamento viene detto espressamente: “Gli internati devono essere trattati con umanità e protetti contro ogni offesa e violenza” In effetti questo principio, salvo poche eccezioni, fu rispettato, e gli internati ebrei non ricevettero un trattamento peggiore dei non ebrei. Non si ha notizia che in Italia venissero compiute crudeltà e sevizie. L'internamento in un campo significava peraltro una considerevole limitazione della libertà personale. Le persone venivano strappate alle loro famiglie, elle loro case, al loro ambiente e ammassate a secondo delle possibilità di ricezione dei campi. I campi erano sorvegliati, anche se, tranne a Ferramonti-Tarsia, non c'era il filo spinato. Solo in casi eccezionali come ad esempio qualora si rendesse necessario un intervento medico d'urgenza, veniva concesso un permesso di uscita. La resistenza nei confronti dell'ordinamento del campo poteva essere punita con il trasferimento in un campo ancora più severo, ad esempio situato sulle isole prospicienti la costa italiana.
Di regola gli internati non potevano lavorare, ma ricevevano per il loro sostentamento un sussidio giornaliero di 6,50 Lire,che era calcolata sui bisogni della popolazione rurale povera e che fu più volte elevata a causa della crescente inflazione. Era appena sufficiente per mangiare e difficilmente poteva bastare .per la sostituzione degli abiti logori. Quando crebbero le difficoltà di approvvigionamento e non tutti i generi alimentari giungevano nei campi, gli internati patirono la fame. Anche le condizioni di igiene erano pietose, il riscaldamento nei mesi invernali era insufficiente. Nel campo di Feramonti-Tarsia furono riscontrati oltre 800 casi di malaria. Fortunatamente non si trattava di una forma mortale, e non si ebbero vittime.
Nei campi più grandi la direzione consentiva agli internati una forma di amministrazione autonoma. A Ferramonti-Tarsia era state creata - in pieno fascismo - un'assemblea dei rappresentanti delle baracche, che elesse il portavoce del campo e creò numerose commissioni, come quella sanitaria, quella educativa e quella culturale, una farmacia, un pronto soccorso, tre sinagoghe, una cappella cattolica e una greco-ortodossa. Analogamente a quanto avveniva in alcuni campi d'internamento francesi, nei campi italiani si sviluppò una vita culturale molto vivace con rappresentazioni teatrali e manifestazioni musicali. In questo modo nella monotonia della vita dei campi e nella loro chiusura nei confronti del mondo esterno - che erano sentite dagli internati come particolarmente oppressive e paralizzanti - si inseriva qualche momento di svago. KLAUS VOIGT
Anche l'isolamento in un comune lontano dal
proprio domicilio abituale comportava una notevole limitazione della
libertà personale. Gli internati venivano strappati all'ambiente
loro familiare, separati da parenti e amici, e costretti a vivere in
un luogo fino ad allora sconosciuto, dove era loro proibito ogni
contatto con gli abitanti, ad eccezione dei padroni di casa. Non
potevano allontanarsi dal territorio comunale senza autorizzazione
speciale e dovevano presentarsi alla stazione di polizia o dei
carabinieri in orari determinati, di solito una volta al giorno.
Potevano lasciare la casa dove abitavano solo durante il giorno,
senza però mai superare un determinato perimetro.
In un primo momento l'internamento nei comuni era previsto, per
quanto riguarda gli «ebrei stranieri», solo per le donne. Questa
forma più blanda di isolamento forzato era vista come una soluzione
transitoria, cui ricorrere fino a quando nei campi non vi fosse
stato posto sufficiente per famiglie e donne sole (…) 279. Il 15 maggio 1940 un telegramma del
Ministero dell'interno invitava i
prefetti di venticinque province dell'Italia centro-settentrionale a
inviare entro cinque giorni un elenco di posti adatti
all'internamento, indicandone la capienza. Gli elenchi dovevano
essere concordati con le autorità militari, per evitare che le
località prescelte si trovassero all'interno delle zone di sicurezza
militare280. (…) Quando le donne e i bambini partivano per
l'internamento, l'autorità di polizia del luogo di residenza
consegnava loro il «foglio di via obbligatorio», con il quale
dovevano presentarsi entro una data prestabilita alla questura della
provincia decisa dal Ministero dell'interno, che li destinava a un
comune (…)Di solito le donne con i loro bambini raggiungevano in
treno il capoluogo della provincia, e da lì venivano portate in
treno, con la corriera o con un tassi collettivo al luogo di
destinazione definitivo. Dopo che ebbero inizio i trasferimenti
dalla Slovenia e dalla Dalmazia, si preferì a volte radunare gruppi
anche piuttosto numerosi, che venivano fatti viaggiare sotto scorta,
in vagoni speciali, mentre l'ultimo tratto, veniva spesso percorso a
bordo di camion. (….) Nella prima fase dell'internamento, fino
all'agosto 1941, non pare fosse difficile reperire alloggi, ma in
seguito la situazione andò sempre peggiorando, malgrado
l'internamento venisse esteso anche alle province dell'Italia
settentrionale. (…) Il secondo e più importante motivo della
drammatica scarsità di abitazioni disponibili era lo sfollamento
nelle campagne di gran parte degli abitanti delle città bombardate,
o perché le loro abitazioni erano andate
distrutte o per proteggerli dai futuri bombardamenti. Le prefetture
tempestarono di lettere e telegrammi il Ministero dell'interno
perché evitasse di inviare altri internati, appellandosi ogni volta
alla mancanza di alloggi causata dallo sfollamento. Vennero anche
requisite residenze e alloggi estivi di vario tipo, con grande
disappunto deiproprietari293.
Da tutti i resoconti di cui
disponiamo, sia quelli degli internati che quelli dei prefetti o
degli ispettori generali, si ricava l'impressione che anche
nell’«internamento libero» gli alloggi fossero quasi sempre poveri o
squallidi, quando non addirittura invivibili. Pur costretti a
rinunciare alle più modeste comodità quotidiane, molti internati
dovettero adattarvisi per oltre tre anni.
Klaus Voigt – Il rifugio precario (Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945) Vol II pp 82/88