a cura di Anna Pizzuti
L'immigrazione clandestina in Palestina, detta aliyà bet ("immigrazione B", in contrapposizione all'immigrazione legale "A"), assunse col tempo un ruolo sempre più importante per la fuga dai persecutori nazisti.
I viaggi si svolgevano a volte in condizioni indescrivibili. Di solito si trattava di navi da carico praticamente fuori uso, a stento capaci di reggere il mare, nelle quali era stata effettuata alla meno peggio qualche modifica. Quasi sempre mancavano i fondi necessari per provvedere a attrezzature di salvataggio e dispositivi di sicurezza. Le navi erano zeppe di gente fino ai limiti della loro capienza, al punto che a volte vi era a malapena il posto per stendersi. Spesso battevano bandiera panamense, ma per la maggior parte appartenevano a sconosciuti armatori greci, che sfruttavano la disperazione dei profughi a proprio vantaggio e mettevano in conto anche la perdita della nave. Al momento dello sbarco di fronte alla costa palestinese bisognava evitare le motovedette britanniche; da terra venivano in aiuto persone appartenenti alle organizzazioni clandestine ebraiche. La maggior parte dei trasporti veniva intercettata e i profughi venivano quindi internati. Se ciò accadeva quando già erano giunti in Palestina, venivano messi in libertà dopo pochi mesi. Nella lontana Mauritius invece dovettero attendere la fine della guerra. Sono note la tragedia della "Struma", che affondò trascinando con sé negli abissi del Mar di Marmara i suoi passeggeri, e l'esplosione sulla "Patria", che provocò 250 vittime.
Molte imprese dell'aliyà bet partirono da porti italiani.
Per non venire identificati, i profughi avevano di solito visti per un altro paese, ad esempio Shanghai, e alle autorità italiane veniva dichiarata una meta diversa da quella vera. La minaccia del decreto fascista di espulsione fece sì che anche in Italia venissero progettate imprese del genere.
Il Comasebit (Comitato di assistenza per gli ebrei in Italia, l'ente che si occupava di aiutare i profughi e che fu sciolto nel 1939 da Mussolini che lo riteneva pericoloso politicamente) e la Delasem parteciparono all'organizzazione di alcune di queste imprese, mentre l'Ufficio per la Palestina a Trieste e il Comitato italiano di assistenza agli emigranti ebrei, che erano collegati tra di loro, non li vedevano di buon occhio. In Italia però l'iniziativa partiva principalmente dagli immigrati e dai profughi stessi, sia pure con l'appoggio degli ebrei italiani, senza il quale non sarebbe stata possibile.
Le maggiori resistenze venivano dalle capitanerie di porto e dalla Direzione generale della marina mercantile presso il Ministero delle comunicazioni, che erano responsabili per la sicurezza della navigazione e che già si erano opposti agli imbarchi per la frontiera francese. L'Italia era tra i firmatari della Convenzione di Londra del 1929 per la salvaguardia della vita umana in mare, che imponeva norme severe al trasporto passeggeri. Di solito le navi da carico inviate dagli armatori greci erano ben lontane dal rispondere a tali norme, o tutt'al più erano autorizzate a trasportare un numero cosi limitato di passeggeri, che non sarebbe più valso la pena di effettuare il viaggio.
Nel periodo tra il settembre 1938 e l'entrata in guerra dell'Italia vi furono nei porti italiani almeno sei imbarchi. Il quadro di questa intensa attività non sarebbe però completo se si dimenticasse il numero assai più alto di tentativi andati a vuoto.
Sintesi da: KLAUS VOIGT, Il rifugio precario, gli esuli in Italia dal 1939 al 1945, LA NUOVA ITALIA, Vol.I, pp.349-366