a cura di Anna Pizzuti
La situazione (degli ebrei stranieri presenti in Italia) mutò comunque sostanzialmente solo dopo l'introduzione in Italia delle leggi razziali nell'autunno del 1938. Sebbene sia forte il sospetto che nella preparazione di queste leggi ci fosse lo zampino dei nazionalsocialisti l'indagine storica non è riuscita finora a provare alcun influsso diretto. Secondo un' opinione largamente diffusa, Mussolini decise autonomamente - tenendo beninteso presente il modello tedesco - di compiere un atto di allineamento, giacché un atteggiamento sostanzialmente diverso in una questione d'importanza fondamentale per il nazionalsocialismo era in contrasto con il. Suo concetto totalitario di un patto. Tra i primi provvedimenti razziali fu il decreto del 7 settembre 1938 che stabiliva per gli ebrei immigrati dopo il l gennaio 1919, salvo poche eccezioni ammesse in seguito, un termine di sei mesi, entro il quale dovevano lasciare il paese. In caso contrario sarebbero stati espulsi.
Contemporaneamente venne revocata la cittadinanza italiana a tutti gli ebrei che l’avessero ottenuta dopo il 1° gennaio 1919.
Il decreto passò poi, con poche modifiche, nella legge razziale del 17 novembre 1938, che assegnava agli ebrei italiani uno status inferiore nella società non molto diverso da un punto di vista legale da quello degli ebrei tedeschi. La differenza sta comunque nel fatto che l'esclusione degli ebrei dalla società italiana fu compiuta quasi esclusivamente con provvedimenti amministrativi: cioè quasi sempre senza terrore né violenza fisica.
Il decreto di espulsione del 7 settembre fornisce un valido esempio dell’applicazione imperfetta di un provvedimento di politica razziale. Con l'avvicinarsi del termine fissato per l'espulsione - il 12 marzo 1939 - le autorità si rendevano sempre più conto che per quella data a mala pena i due terzi dei 9000 immigrati e rifugiati ebrei residenti in Italia sarebbero riusciti a superare le limitazioni poste all'immigrazione da parte di altri paesi. Contro l'espulsione in massa degli ebrei giocavano peraltro interessi soprattutto economici. Nella crisi generale del movimento turistico nei mesi precedenti lo scoppio della seconda guerra mondiale le società di navigazione e l'industria turistica temevano per la clientela dei profughi. Inoltre un'espulsione di masse poteva essere difficilmente attuata, dal momento che nessun altro paese aveva intenzione di accogliere i profughi. Cosi, senza alcun clamore, la scadenza per l'espulsione fu sospesa.
A causa delle pressioni della direzione
generale del turismo presso il Ministero della Cultura Popolare era
stata già in precedenza concessa la possibilità di ottenere un
permesso d'ingresso e di soggiorno - in un primo tempo limitato a
tre mesi, in seguito a sei - per “ebrei stranieri” che volessero
recarsi in Italia “per turismo, per imbarcarsi, per cura, per studio
e per affari” Il 27 febbraio fu introdotto dal Ministero degli
Esteri l'apposito visto turistico. Grazie al visto turistico fu pur
sempre possibile a 4-5000 ebrei che altrimenti per la maggior parte
avrebbero trovato la morte in un campo di sterminio, fuggire dai
paesi sottoposti al dominio nazista. (…..)
Nello stesso periodo le autorità cominciarono a rendersi conto che
il visto turistico veniva utilizzato prevalentemente per la fuga, e
che questo annullava gli effetti del decreto del 7 settembre. Una
statistica del settembre 1939 mostrava infatti che il numero dei
profughi presenti nel paese era di nuovo in aumento. Il 19 agosto il
Ministero dell'Interno impartì disposizioni per l'annullamento di
tali visti.
Con questa misura tuttavia non veniva ancore interrotto il transito attraverso i porti italiani, le cui importanza si accrebbe, soprattutto per l'emigrazione verso la Palestina, il Sudamerica e Shanghai. Grazie e un accordo tra il Ministero degli Esteri italiano e l'Ambasciata britannica di Roma fu assicurata durante la fase della non belligeranza italiana la prosecuzione dell' emigrazione verso la Palestina per possessori di certificati vie Trieste che salvò la vita a oltre 3000 persone. I visti di transito furono concessi dai consolati italiani, soprattutto nella Polonia occupata. (…) Allorché la raccolta di oltre 600 profughi, prevalentemente polacchi, a Trieste suscitò l'irritazione delle autorità, il Ministero dell'Interno proibì dapprima in aprile, il transito degli ebrei polacchi, e in seguito, con l'ampio divieto di emigrazione del 18 maggio 1940 si giunse a un blocco totale dell'emigrazione di transito.
Nel periodo successivo all'introduzione delle leggi razziali le condizioni di vita dei profughi ebrei peggiorarono in modo drammatico. Il divieto di lavoro per “ebrei stranieri”, entrato in vigore il 12 marzo 1939 - termine fissato per l'espulsione - ebbe come conseguenza, secondo una stima della Delasem (Delegazione per l'Assistenza agli Emigranti Ebrei) (….) che in media solo circa il 3% dei necessari mezzi di sostentamento proveniva da un' attività professionale autonoma. (…) In generale però i profughi attingevano sempre più alle loro sostanze ed erano costretti a disfarsi dei loro averi e dei loro ultimi oggetti di valore. Il sostegno finanziario assicurato alla Delasem dall'American Jewish Joint Distribution Committee era di gran lunga insufficiente a garantire agli ormai oltre 3000 individui assistiti le più elementari necessità vitali. (…) Il fatto che, nonostante il sostegno limitato che ricevevano, i profughi riuscissero ed assicurarsi il sostentamento fa pensare a un'ampia e spontanee disponibilità da parte della popolazione italiana ad aiutarli.