a cura di Anna Pizzuti
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Gli ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico provenivano - nella quasi totalità - dagli stati dell'Europa centro-orientale la cui organizzazione politica e sociale era stata stravolta dall'esito della prima guerra mondiale e dai mutamenti che precedettero lo scoppio della seconda .
La stessa data di nascita degli internati, risalente in generale agli ultimi decenni del 1800 o ai primi del 1900, sta ad indicare il fatto che essi -qualsiasi fosse la loro nazione di provenienza - avevano camminato "cambiando più spesso i paesi delle scarpe" i e, con i paesi, molto spesso, anche la nazionalità.
Per questo motivo, al momento di creare la struttura del database presente su questo sito, si era scelto di indicare, accanto al luogo di nascita, la nazione nella quale questo luogo si trovava.
Operazione del tutto agevole quando si trattava di capitali o di città altrettanto note, ma dall'esito molto incerto nei casi - piuttosto frequenti - di piccole città o villaggi i cui nomi erano stati malamente trascritti da parte di chi redigeva gli elenchi degli internati o tutti gli altri documenti che li riguardavano.
In più, procedendo nella ricerca, ci si è venuti rendendo conto che la semplice allocazione geografica del luogo di nascita avrebbe, in molti casi, separato i protagonisti dalle ragioni storiche delle loro vicende.
Si è quindi deciso di sostituire all'indicazione della nazione in cui realmente o ipoteticamente veniva a trovarsi il luogo di nascita, la segnalazione della nazionalità degli internati.
Questa operazione ha tuttavia posto un problema di fondo: quale significato attribuire al termine "nazionalità" presente nella quasi totalità delle fonti documentali?
Andava, cioè, verificato se esso venisse usato come sinonimo di cittadinanza - come spesso accade - o nel suo significato assoluto.
Esiste, infatti, tra nazionalità e cittadinanza, una differenza sostanziale. Mentre la prima richiama il legame che collega un individuo ad un gruppo o ad una comunità omogenea per lingua cultura, tradizioni, religione, la seconda assume un significato più specificamente giuridico, perché rappresenta la condizione della persona che vede riconosciuti, dallo Stato in cui risiede, pieni diritti civili e politici.
E' anche vero, tuttavia, che nessuno dei due termini potrebbe risultare adatto a descrivere la condizione degli ebrei che vivevano nell'Europa centro orientale nei due decenni che intercorsero tra la prima e la seconda guerra mondiale.
E', infatti, difficile attribuire loro sia l'appartenenza totale alla comunità prevalente nello stato di residenza, sia il possesso di diritti che nemmeno la naturalizzazione, cioè l'acquisizione della cittadinanza, rendeva stabili, inalienabili.
Essi erano stati per secoli minoranza e lo rimanevano anche nelle nazioni sorte dopo la prima guerra mondiale, quelle che Hannah Arendt ha definito "nazioni delle minoranze" nelle quali erano costrette a convivere popolazioni fino ad allora separate se non ostili.
Minoranza erano gli slovacchi e gli ungheresi in Cecoslovacchia, o i croati e gli sloveni in Jugoslavia, solo per fare qualche esempio.
"Raggruppati più popoli in uno stato - scrive la filosofa tedesca - i trattati affidarono il governo ad uno di essi, promosso a rango di "popolo statale", tacitamente presumendo che gli altri importanti avessero una parte adeguata nell'amministrazione del paese, il che, naturalmente, non fu." ii
E l'attribuzione ad un organismo esterno, cioè la neonata Società delle nazioni, rese ancora più lontana la prospettiva di impedire discriminazioni ed abusi. iii
Fu così che in quelle nazioni si formò la concezione che "soltanto l'appartenenza alla nazione dominante dava veramente diritto alla cittadinanza e alla protezione giuridica" e divenne pratica consueta la limitazione dei diritti da concedere alle componenti minoritarie della popolazione, in modo da segnare la loro diversità rispetto alla parte maggioritaria.
L' unica prospettiva concessa ai gruppi allogeni per venir fuori da questa situazione - sempre secondo Hannah Arendt - era quella di "accontentarsi delle leggi eccezionali finchè non erano completamente assimilati e non avevano fatto dimenticare la loro origine etnica", cosa che, per le popolazioni ebraiche era molto difficile.
Esisteva la possibilità della naturalizzazione, cioè la rinuncia alla cittadinanza d'origine e l'acquisizione della cittadinanza nel nuovo stato di cui ci si era ritrovati a far parte, ma non sempre questa procedura bastava a favorire l'integrazione e, in più, finiva per rivelarsi un percorso quasi impraticabile.
"L'intero procedimento - scrive la Arendt - venne meno di fronte alla prospettiva di una massa di decine di migliaia, di centinaia di migliaia di persone da naturalizzare. […] Invece di naturalizzare almeno una piccola parte dei nuovi arrivati, tutti i paesi cominciarono ad annullare le naturalizzazioni già accordate e i cittadini che subirono questi provvedimenti furono di regola i primi a diventare apolidi.
Questo il contesto in cui si sviluppò la politica revanschista di Hitler - culminata nel 1938 con l'annessione dell' Austria al Reich nazista e con lo smembramento della Cecoslovacchia seguito subito dopo - politica fatta subito propria anche da altri stati, come ad esempio l'Ungheria o la Romania pronte a recuperare i loro territori assegnati nel 1919 alla stessa Cecoslovacchia, e, soprattutto, acclamata da gran parte delle popolazioni interessate, come accadde in Austria.
Del resto, gli ebrei erano "i rappresentanti per eccellenza e quasi il simbolo vivente del popolo, di quella nuda vita che la modernità crea necessariamente al suo interno, ma la cui presenza non riesce più in alcun modo a tollerare" iv
E in questo stesso contesto venne ad inserirsi - quasi come corollario - la promulgazione delle leggi antiebraiche da parte di tutti gli stati dell'Europa centro orientale, leggi accolte con manifesto consenso da parte di quelle popolazioni e senza grandi o significative proteste da parte delle democrazie occidentali.
Tutte queste leggi, seguendo il modello delle leggi di Norimberga - le prime ad attuare, a partire dal 1933 l'annullamento in massa delle naturalizzazioni contro i tedeschi naturalizzati di origine ebraica -v si posero, come primo obiettivo, quello di espellere gli ebrei dalla comunità nazionale togliendo loro la cittadinanza.
Fu così in Romania e in Ungheria, mentre la Polonia tolse la cittadinanza agli ebrei che avessero risieduto all'estero da almeno cinque anni e che non fossero rientrati entro il mese di ottobre del 1938. vi
Gli ebrei austriaci i quali avevano goduto, storicamente, del diritto di cittadinanza, dopo l'Anschluss non furono considerati "membri della comunità protettiva del Reich tedesco" e, conseguentemente nemmeno cittadini del Reich. vii Il neonato stato slovacco - satellite del Reich - nell'aprile del 1939 tolse agli ebrei, tra gli altri, il diritto di voto.
Già nel 1938 - è sempre la stessa Arendt a ricordarlo - anche i partecipanti alla conferenza di Evianviii dovettero riconoscere che tutti gli ebrei tedeschi e austriaci fossero ormai potenzialmente apolidi, come lo sarebbero diventati, ben presto. quelli residenti negli altri stati di quella parte d'Europa.
Privati della cittadinanza, e resi così apolidi, agli ebrei residenti nell'Europa centro-orientale venne a mancare di qualsiasi tutela da parte dei governi.
E tra le varie implicazioni dell'apolidicità, Hannah Arendt ricorda quella più drammatica: l'estrema cura con cui i nazisti insistevano affinchè gli ebrei non tedeschi perdessero la loro nazionalità prima del trasporto o, al più tardi, il giorno della deportazione.ix
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