a cura di Anna Pizzuti
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Naturalmente lo scambio di informazioni […] è, nonostante il codice, molto difficile.
Quei vecchi questurini - noia, curiosità, zelo? - leggono con molta attenzione le lettere che noi
scriviamo e anche quelle che riceviamo e che pure sono già state censurate
dal Commissario del Campo da dove provengono.i
La corrispondenza attraverso lettere o cartoline era uno strumento indispensabile, di fatto l'unico concesso agli ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico che permetteva di avere relazioni con il mondo esterno e, soprattutto, con i familiari rimasti nei loro paesi d'origine, sottoposti alle persecuzioni dalle quali essi erano riusciti a fuggire.
Attraverso di essa potrebbero essere ricostruiti con maggiore rispondenza alla realtà le effettive condizioni di vita degli internati, ma questa tipologia di documentazione sembra essere rimasta, finora, piuttosto trascurata dai ricercatori.
I fondi archivistici nei quali molte delle lettere inviate o ricevute dagli internati potrebbero essere conservate in copia o in originale, proprio a seguito della censura imposta dal regime a tutti i mezzi di comunicazione a partire dal 15 giugno del 1940 sono rimasti, infatti, finora quasi inesplorati.ii
Si vedrà, invece, che anche una raccolta non particolarmente ampia di lettere - finite forse casualmente nel fascicolo nel quale sono state rinvenute - può costituire una importante fonte di informazioni.
La corrispondenza che qui si presenta appartiene agli ebrei stranieri internati a Ferramonti, ma le lettere che la compongono potrebbero essere state scritte o ricevute da qualsiasi altro gruppo degli ebrei che, durante il periodo bellico, furono ristretti dal regime fascista nei campi o nelle località di internamento.iii
Comuni a tutti gli internati, infatti, erano il bisogno di aiuto materiale, o la determinazione a portare avanti i progetti di emigrazione e questo richiedeva molti contatti con le organizzazioni di assistenza o con le legazioni straniere. Per non parlare della necessità di ricevere informazioni su familiari di cui non si avevano più notizie, alla quale tentava di rispondere la Croce Rossa. E erano queste le lettere più drammatiche.
Allo stesso modo può essere considerata la corrispondenza che agli internati giungeva dai loro paesi d'origine. A scrivere erano familiari e amici, accomunati dall'ansia per i congiunti lontani, dalle difficoltà che si incontravano a mantenere i contatti con loro e con gli altri parenti, dagli stratagemmi adottati per far sfuggire alla censura le informazioni sulle reali condizioni in cui versavano.
Ad interporsi tra mittenti e destinatari c'erano diversi soggetti: le autorità di sorveglianza degli internati, che raccoglievano la posta in entrata ed in uscita per inviarla agli organismi preposti al suo esame, i traduttori, considerato che a corrispondere erano, appunto, degli stranieri, i censori, dai quali dipendeva se la corrispondenza dovesse essere "tolta di corso" o potesse essere inviata al destinatario.
Il confronto tra la data in cui le lettere erano state scritte e quella, apposta su molte, in cui esse vengono restituite oppure riconsegnate tradotte dà, infine, la misura di quanto l'ultimo, ma non per questo meno grave ostacolo alla corrispondenza fosse costituito dal tempo da essa impiegato per giungere a destinazione.
Insieme alle lettere è stato rinvenuto altro materiale documentario, costituito dalle note con le quali l'autorità locale accompagnava la trasmissione di questa corrispondenza in partenza o in arrivo a Ferramonti alle istanze superiori cui era affidato il compito di revisionarla.
Sono presenti anche vari esempi delle comunicazioni che intercorrevano tra i diversi uffici che si occupavano della traduzione delle lettere e della successiva eventuale censura.
Questi documenti coprono un arco di tempo che va dal mese di novembre del 1942 al mese di luglio del 1943, toccando in una caso anche il mese di agosto a dimostrazione che la censura non era stata abolita con la caduta del fascismo.
Anche se quasi tutte queste comunicazioni riguardano corrispondenza che non è presente nel fascicolo, esse si rivelano comunque utili a rilevare quanta parte dell'apparato burocratico fosse coinvolto nelle procedura censorie e come il controllo della corrispondenza inviata o ricevuta dagli ebrei stranieri internati seguisse un percorso più articolato rispetto a quello previsto dalle disposizioni emanate dal regime per il resto della corrispondenza civile.
L'esame relativo alla corrispondenza in partenza da Ferramonti metterà , infine, in evidenza quali fossero i destinatari consentiti dalla censura, quali invece quelli ai quali non era concesso rivolgersi, secondo valutazioni che non sembrano dipendere solo dalle regole di sicurezza indotte dallo stato di guerra, ma che appaiono parte del sistema persecutorio imposto agli ebrei internati.
Le lettere scritte dagli internati sono 19; di alcune sono presenti solo stralci che avevano attirato l'attenzione della censura, delle altre la traduzione completa. Di una, in particolare, è presente l'originale.
Nonostante il loro numero limitato, il contenuto di questi documenti è sufficiente ad illustrare sia i problemi ed i timori che venivano vissuti nel campo, sia le modalità di intervento della censura.
La documentazione più consistente e per molti motivi più interessante è costituita da 113 lettere inviate agli internati nel periodo che va dall'aprile del 1942 all'ottobre dello stesso anno. Di esse, nel fascicolo, rimangono copie della traduzione che, in base alle norme, dovevano essere conservate. Due portano rilievi della censura, ma mancano documenti che confermino o meno l'invio di tutto il blocco della corrispondenza ai destinatari.
Solo sette di queste lettere provengono da città italiane o da località di internamento. Altre sette sono state inviate da nazioni o territori sottoposti, direttamente o indirettamente al dominio nazista , come la Polonia, La Slovacchia, la Serbia, la Francia di Vichy.
Pur considerando che la presenza di queste ultime nel fascicolo possa essere stata dovuta al caso, si è tentati di collegarne il numero così ridotto a quanto stata accadendo nelle nazioni dalle quali le lettere provenivano.
Va ricordato , infatti, che per tutti gli ebrei che non avevano lasciato l'Europa e che erano sopravvissuti alle stragi iniziali messe in atto con vari mezzi nelle nazioni e nelle aree geografiche finite sotto il controllo tedesco, già nei primi mesi del 1942 era stata avviata la "soluzione finale" pianificata durante conferenza di Wannsee, che si era tenuta il 20 gennaio 1942.
Per essi era diventato, quindi, molto difficile comunicare con i familiari e queste lettere potrebbero essere situate, quindi, tra le ultime che ebrei erano riusciti ad inviare ancora in stato di libertà dalle nazioni citate sopra.
Il numero più consistente - 78 lettere - proviene, invece da varie città ungheresi, compresa Budapest, e da località situate nei territori slovacchi, romeni e jugoslavi che erano appartenuti al regno d'Ungheria fino al 1918 e che essa si era di nuovo annessa tra il 1938 e il 1941. Anche le sedici nelle quali mancano dati precisi per l'identificazione del destinatario, contengono elementi che le farebbero inserire in quest'ultimo gruppo.
Quelle provenienti dai territori annessi risultano inviate da genitori degli internati o da familiari strettissimi, mentre quelle provenienti da Budapest o da altre città interne all'Ungheria sono scritte da amici o familiari meno prossimi, e testimoniano, tra l'altro, i legami che erano stati mantenuti tra coloro che i trattati successivi alla prima guerra mondiale avevano separato.
Oltre che dalla provenienza, esse sono accomunate dal fatto di essere scritte in ungherese , lingua che , all'inizio della guerra, non era tra quelle consentite dalle disposizioni riguardanti la corrispondenza degli stranieri.
Prevalgono, tra i destinatari che è stato possibile identificare, quelli internati a Ferramonti dopo l'entrata in guerra dell'Italia.
Dodici di essi possono essere considerati veri e propri profughi e sono quelli provenienti dal campo albanese di Kavaja, dalla Provincia di Lubiana dalla Dalmazia, territori jugoslavi annessi all'Italia o quelli arrivati a Ferramonti, dopo varie vicissitudini, da Bengasi.
I rimanenti facevano parte, invece, al gruppo di ebrei i quali, nel maggio del 1940, erano partiti da Bratislava per raggiungere l'allora Palestina discendendo il Danubio a bordo del battello fluviale Pentcho e che, solo a seguito dell'interruzione forzata del viaggio causata dal naufragio, e dopo la permanenza durata mesi , nell'isola di Rodi, erano stati internati in Italia.
La loro nazionalità era slovacca, ma appartenevano evidentemente alla maggioranza ungherese presente nei territori tornati all'Ungheria tra il 1938 e il 1940.
I familiari che scrivono loro appaiono sicuri del fatto che essi abbiano raggiunto la salvezza, ma lamentano, in generale la mancanza di notizie più frequenti.
Basta, però, osservare il tempo che intercorre tra la data in cui le lettere erano state scritte e le date della traduzione registrate su molte di esse, per rendersi conto che potevano passare anche mesi, prima che la corrispondenza raggiungesse i destinatari.
L'altra preoccupazione , segno del legame ancora forte tra chi era fuggito e chi era rimasto, riguarda le modalità di invio di aiuti. Le difficoltà che i familiari degli internati incontrano nell'inviare denaro o pacchi, riferite soprattutto dai mittenti delle lettere provenienti dai territori ungheresi, forniscono una significativa testimonianza di come fossero stati limitati i diritti degli ebrei in quella nazione: questo tipo di invii che in generale le norme consentivano, ad essi erano proibiti o resi estremamente complicati.
Al di là delle contingenze legate alla lontananza, il contenuto delle lettere provenienti dai territori ungheresi costituisce, nel suo insieme, una sorta di racconto collettivo di momenti di vita quotidiana - la salute, le visite ai parenti, il lavoro dei campi, i bambini che crescono - della quale sembra si desideri trasmettere, ma anche, in qualche modo, custodire la continuità. Essi, tuttavia, appaiono vissuti non in un vero e proprio presente, bensì in un tempo sospeso tra "i tempi di prima" cui si accenna solo per dire che "non sono più" e un futuro cui ci si impedisce di pensare.
"Io era tra color che son sospesi ..."iv : nessun riferimento, si ritiene, è più adatto a spiegare questa condizione delle parole con le quali Virgilio rappresenta a Dante la natura del Limbo, il luogo di sospensione per eccellenza tra salvezza e dannazione.
Accostandosi alla lettura, va tenuto tuttavia presente che non ci si trova di fronte a testi originali, bensì a traduzioni in italiano di scritti in lingua straniera e che l'urgenza comunicativa dei mittenti risulta necessariamente filtrata attraverso scelte linguistiche operate da soggetti esterni, influenzati nello svolgimento del loro compito anche da personali valutazioni ideologiche e culturali.
A trasferire in lingua italiana la gran parte di questa corrispondenza, per di più, sembrano essere stati sempre gli stessi traduttori, il che conferisce ai testi una uniformità linguistica che rischia di far dimenticare che le lettere sono state scritte da persone diverse.
La stessa uniformità si rinviene negli argomenti trattati, ma bisogna ricordare, a questo proposito, che chi scriveva era a conoscenza del fatto che le proprie parole sarebbero passate sotto gli occhi della censura, il che limitava di molto anche la scelta del tipo di informazioni da comunicare.
Ed è da questa consapevolezza che deriva, inoltre, la tendenza dei mittenti a riferire in modo piuttosto vago anche avvenimenti che si percepiscono come drammatici. Una descrizione più dettagliata di ciò che avveniva o denunce e recriminazioni sulle condizioni in cui si viveva avrebbero fatto correre il rischio alla lettera di non essere consegnata al destinatario.
Questo comportamento poteva, tuttavia, essere determinato anche dalla volontà di nascondere a chi era lontano quanto terribile e pericolosa fosse la realtà con la quale quotidianamente bisognava fare i conti.
L'intenzione di rassicurare viene, però, spesso smentita dai continui riferimenti all'attesa di notizie da parte di parenti e amici che vivono in altre città o dei quali non si può nascondere che sono stati "portati via", particolare che rivela quanto forte fosse la percezione dei pericoli che tutti correvano.
Gli accenni alla durezza delle leggi cui gli ebrei, anche quelli passati ad altra religione, sono sottoposti come gli obblighi di lavoro o il durissimo servizio nell'esercito che i giovani erano costretti a prestare rimangono, ad ogni modo, sempre sullo sfondo, temperati dalla speranza, quasi rituale, nell'aiuto divino.
Era proprio in questi ambiti - l'obbligo al lavoro ed il servizio militare - invece, che gli ebrei ungheresi, soprattutto quelli che vivevano nei territori annessi dopo il 1938 stavano subendo violenze non molto dissimili da quelle che avrebbero poi sperimentato ad Auschwitz.
La stessa atmosfera di sospensione, unita a chiari riferimenti alla tragedia in corso - "In questi giorni ho ricevuto una lettera di essa così supplicante che la censura l'ha lasciata passare" scrive un ebreo polacco esule in Francia, riferendosi alle notizie ricevute dalla sorella - è presente nelle lettere provenienti da paesi europei sottoposti all'occupazione tedesca.
Dalle lettere provenienti da località italiane traspare, invece, la situazione di relativa sicurezza nella quale i mittenti ancora vivono nel 1942, ma ad essa fa da contraltare, almeno in un caso, l'ansia per i familiari residenti nelle nazioni in cui maggiori sono i pericoli e dai quali si tenta - invano - di farsi raggiungere.
Va notato che anche queste lettere, scritte da ebrei con cittadinanza straniera che, per vari motivi, non erano stati internati sono ugualmente in lingua ungherese.
Altre osservazioni potrebbero essere ancora fatte sul contenuto delle lettere, ma una forzatura nell'interpretazione rischierebbe di ridurle a mero documento storico e finirebbe per sovrapporsi, sminuendola, alla sottile, ma coinvolgente trama del comune sentire che da esse traspare.
Non si può, ad ogni modo, sfuggire alla domanda su quale contributo documenti come questi possano apportare alla ricostruzione storica.
Una risposta potrebbe essere trovata, per analogia, nella sintesi cui lo scrittore serbo Aleksandar Tišma perviene nel suo romanzo Il libro di Blam in cui ricostruisce lo sterminio di millequattrocento ebrei e serbi abitanti di Novi Sad compiuto dagli occupanti ungheresi - da qui anche la significatività della citazione - in soli tre giorni, dal 21 al 23 gennaio 1942.
Nell'ottavo capitolo l'autore mette a confronto due tipologie di fonti a disposizione degli studiosi interessati a ciò che accadde nella città serba.
La prima è una ricerca storica condotta nel 1946, fondata su documenti di archivio, testimonianze di sopravvissuti, atti dei processi cui furono sottoposti i colpevoli della strage.
La seconda è il quotidiano cittadino "Il nostro giornale", nel quale, accanto alle notizie sulla guerra ed alle ordinanze emesse dagli occupanti, venivano pubblicati articoli su episodi di vita quotidiana e rubriche su vari argomenti, senza che vi fosse data nessuna notizia su ciò che era accaduto nella città nei giorni della strage.
Alla domanda su quale dei due tipi di documenti contribuisca a rendere la realtà che si viveva a Novi Sad, Tišma risponde, provocatoriamente, che lo fanno entrambi e nessuno.
Creati da due opposti punti di vista - quello dell'accusa e quello della difesa, del definitivo e del temporaneo, dell'essenziale e del superficiale, della rivelazione e della dissimulazione, della storia e del quotidiano - sono come due disegni dello stesso luogo: il primo riporta montagne e fiumi, il secondo località e strade. Solo sovrapponendoli si ottiene un'immagine approssimativamente esatta del paesaggio.v
La sovrapposizione di cui parla Tišma si realizza nel luogo, per così dire, unico, delle lettere.
In esse la durezza di ciò che accade - se pure per motivi ben diversi da quelli del quotidiano citato dallo scrittore - prevale, quasi contro la volontà di chi scrive, sul desiderio di nascondere o attenuare la persecuzione che si sta subendo.
Piove una pioggerella così buona e tranquilla - scrive da Levice Sando Haas all'inizio della sua lettera a Teodoro Kun, l'amico internato a Ferramonti, ma più avanti è costretto a svelare: Per momento i colpi più gravi hanno toccato la povera Margit. Di Lolo già da molto tempo sai che non si hanno notizie ed Evi l'hanno portata via adesso. Finora neanche da lei si ha alcun segno di vita, restituendo così, come direbbe Tišma, un'immagine approssimativamente esatta del paesaggio.
La parola paesaggio, usata dallo scrittore, tanto più risulta appropriata, se si considera che la parte della raccolta che qui si presenta, cioè quella costituita dalle lettere dei familiari degli internati fornisce, forse, uno dei pochi esempi di corrispondenza risalente alla seconda guerra mondiale in cui le lettere non sono inviate da un luogo di persecuzione chiuso a persone che, standone fuori, in qualche modo potrebbero avere maggiori possibilità di sopravvivere.
Queste lettere compiono, invece, il percorso inverso: partono da città e villaggi in cui la tragedia che si prepara concede ancora una parvenza di libertà e di speranza e sono dirette a persone che, al contrario, sono private della loro libertà, ma non in pericolo di vita.
Tutti i destinatari delle lettere, infatti, si salveranno, grazie agli eventi bellici italiani che portarono alla loro liberazione a seguito dell'arrivo degli inglesi nel campo di Ferramonti il 17 settembre del 1943, mentre i nomi di molti degli autori delle lettere - come quello del Sandor Haas citato sopra - sono stati ritrovati nel database delle vittime della Shoah presente sul sito dello Yad Vashem.
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