a cura di Anna Pizzuti
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Il campo di Kavaja, posto sotto l'amministrazione militare italiana era situato in Albania. Qui venne internato già nel luglio del 1941 un gruppo di ebrei rastrellati nel Montenegro. Le circa duecento persone che lo componevano erano fuggite dalle loro città d'origine - Belgrado e Sarajevo - in seguito all'occupazione nazista della Serbia e della Bosnia.
Secondo il piano concordato dagli alleati dell'Asse prima dell'attacco alla Jugoslavia, il Montenegro avrebbe dovuto essere occupato dagli italiani. Essi ne smembrarono il territorio in tre parti: le Bocche di Cattaro che vennero annesse all'Italia come "provincia" facente parte del "Governatorato della Dalmazia"; i territori limitrofi al confine albanese, annessi alla "Grande Albania" sotto la corona del re d'Italia; per la restante parte, invece,si pensava di creare uno stato montenegrino "indipendente sotto tutela italiana.
Durante i primi mesi dell'occupazione, mentre nelle altre regioni della Jugoslavia infuriavano le carneficine, il Montenegro fu invaso da profughi provenienti dalle regioni confinanti, tra i quali, appunto, c'erano anche gli ebrei.
La situazione cambiò dopo l'insurrezione popolare del 13 luglio del 1941, repressa duramente dall'occupante italiano. Le direttive emanate per "ripulire il territorio" prevedevano, l'incendio di interi villaggi, la fucilazione di ostaggi e l'internamento per i civili di sesso maschile di età compresa tra i 15 e i 56 anni.
Molti i campi creati nello stesso Montenegro, ma molti dei civili rastrellati localmente furono internati in Albania, in particolare nei campi di Kukes e in quello di Kavaja.
Il rastrellamento degli ebrei stranieri nelle località del Montenegro dove erano giunti e risiedevano da qualche tempo fu effettuato nella nottata tra il 22 e il 23 luglio del 1941.
Le operazioni di polizia portarono all'arresto di 192 ebrei per i quali il prefetto di Cattaro, Francesco Scassellati, evitò l'espulsione alla frontiera, disponendo, invece, l'internamento nel campo di Kavaja.
A Kavaja gli ebrei vennero internati insieme agli insorti montenegrini ed alle loro famiglie, in condizioni difficilissime.
Le baracche di legno avevano il pavimento in terra battuta e mancavano di infissi. Le condizioni igieniche erano precarie, il vitto scarso. I nuovi arrivati, però, ebbero un trattamento meno duro e, soprattutto, al contario di quanto era previsto per gli altri internati, fu loro concesso di ricevere aiuti e di comunicare con l'esterno.
Iniziarono quindi gli appelli alle comunità italiane ed alle organizzazioni di assistenza al fine di ottenere il proscioglimento o, almeno, l'internamento in Italia.
Quest'ultima soluzione, che arrivò poche settimane dopo, non fu ottenuta grazie a questi appelli, ma a causa del rifiuto delle autorità italiane di accettare la presenza di ebrei in Albania.
Fu così che il 25 ottobre del 1941 gli ebrei - 187 degli originari 192 - furono trasferiti con dei camion nel porto di Durazzo ed imbarcati verso l'Italia su un piroscafo diretto a Bari. Da qui furono trasferiti a Ferramonti dove giunsero il 27 ottobre del 1941.
Attraverso le informazioni finora raccolte nel database contenuto nel sito è possibile verificare che, al momento della liberazione del campo da parte delle truppe alleate, a Ferramonti erano rimasti solo 36 componenti del gruppo originario. Dei rimanenti 151 tre erano morti, 17 erano riusciti ad emigrare, uno, Mirko Davico, era stato estradato e consegnato agli ustascia che lo condannarono a morte.
Molti gli appartenenti al gruppo che erano stati trasferiti in internamento libero nelle seguenti province del centro- nord:
Aosta (6), Ascoli Piceno (3), Asti (3), Chieti (9), L'Aquila (20), Modena (19), Parma (27), Perugia (4), Pesaro Urbino (8), Potenza (3), Rieti (3), Sondrio (22), Treviso (4), Verona (1), Vicenza (13).
I deportati furono sei: due da Rieti e quattro da Parma.
Sempre tramite le informazioni ad oggi contenute nel database, conosciamo anche il luogo dove si trovavano 74 degli appartenenti al gruppo subito dopo la liberazione. Essi erano distribuiti nel seguente modo, a seconda delle località in cui si erano internati:
a Bari (22), a Fort Ontario -NY,USA- (5), a Ferramonti (2), a Firenze (3), ad Ascoli Piceno (3), a Perugia (2), a Roma (14), a Santa Maria al Bagno, in provincia di Lecce (9), in Svizzera (19).
Di due si sa che sono sopravvissuti, ma non si conosce il luogo in cui si trovavano.
Tre furono immediatamente rimpatriati dalla Croce Rossa Internazionale.
Le due sorelle Khon, Vera e Renè, internate a Parma e prosciolte per intercessione del Vaticano subirono il destino raccontato nella seguente storia:
La storia di Vera Kohn
Dal database: elenco degli internati provenienti da Kavaja.
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